La parola "responsabilità" è ormai diventata una parola quasi priva di senso, almeno per come la si usa o se ne abusa ogni giorno negli ultimi tempi. Eppure, questa parola dovrebbe indicare uno dei concetti sui quali investire ogni nostra singola azione, sia che riguardi la vita privata, sia che si inserisca in una dimensione per così dire sociale. Essere responsabili, soprattutto oggi, significa essere consapevoli che non è solo con la "verità" che ci si deve confrontare, nella quotidiana lotta per assicurarci un futuro su questa terra, ma anche con la "possibilità", che la strada da seguire non ha a che fare con un'idea (tantomeno con una ideologia), ma con una pratica. La pratica a cui penso, modestamente parlando, è la pratica della vicinanza alla verità, dell'approssimarsi alla verità, pur sapendo che non la potremo forse mai raggiungere. In versione non confessionale, mi verrebbe da dire che la nostra pratica quotidiana dovrebbe riappropriarsi di qualcosa che era tipico del sacro, della fede, di un sacro e di una fede che non danno per definitivo nulla, nemmeno la divinità, ma che diventano spinta e preghiera verso ciò che ci è superiore: la natura, l'universo. Il nostro sguardo, per dare inizio alla scommessa della nostra sopravvivenza, deve prima scendere di nuovo alla terra, alle orme lasciate dai nostri passi, alla polvere che il nostro cammino solleva. Dobbiamo di tanto in tanto dimenticare la conquista della posizione eretta, che tanto ci ha resi presuntosi e distanti dalla grande madre, prima, e tra di noi, dopo. Solo con questo esercizio, potremo poi risollevare i nostri occhi al presente, per farli ben aperti al futuro. Ma i nostri occhi dovranno piangere molto, per potere essere limpidi nella visione di un altro possibile cammino. Ecco, dobbiamo reimparare a piangere. Il nostro tempo ci vuole ad occhi asciutti, "scafati", cinici. Gli occhi asciutti, l'essere scafati, il cinismo sono categorie del nostro essere deboli, disarmati, confusi. Dovremo quindi pulire i nostri occhi per vedere meglio, per ritornare ad essere "ingenui", per ritrovare passione. Così, "responsabilità" non resterà solo una parola pronta ad ogni uso, ma sarà pratica di forza, di coraggio. Sarà affascinante miraggio di una possibile verità. E non è poco.
Uno specchio per la nostra metamorfosi lo potremo trovare nei più esperti creatori di miraggi: i bambini. Lo potremo cercare nel loro autentico dolore, nella loro autentica gioia, nella loro paura e nella loro arrogante sicurezza. Si dice che i bambini sono la bocca della verità, che la verità è nel loro candore, ma non è il "candore" la qualità specifica dei bambini, bensì la loro capacità di aumentare a dismisura le possibilità e, così facendo, di avvicinarsi alla verità, di approssimarsi alla verità. Abbassare il nostro sguardo, soprattutto in un progetto che contenga una visione del futuro, impone di inginocchiarsi per incontrare lo sguardo dei bambini. Saranno loro a prenderci la mano e ad accompagnarci il più vicino possibile alla verità.
Ognuno di noi, insomma, dovrebbe ritrovare il suo amico invisibile e parlare con lui almeno due volte al giorno: la mattina per raccontarsi a vicenda i sogni che si sono fatti e la sera per raccontarsi a vicenda la parte dei sogni che si è fatta realtà durante il giorno.
mercoledì 26 febbraio 2014
martedì 18 febbraio 2014
Il respiro da spartire
Questo post lo devo a un poeta, un giornalista, uno scrittore, insomma a un uomo che fa tutte queste cose. Ma ci sono tanti uomini che fanno tante cose, direbbe qualcuno. E' vero. Tuttavia, leggendo uno dei suoi ultimi libri, ho capito che quello che fa lui, nel nostro paese, non lo fa quasi nessuno, perché per fare quello che fa lui ci vuole coraggio, lucidità, cervello a posto, umiltà a tonnellate, fantasia, follia, amore. Lui si chiama Franco Arminio
(il suo blog, http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/) ed è l'inventore della PAESOLOGIA. Una scienza mai come oggi necessaria, soprattutto per chi vive in luoghi appartati, piccoli, periferici, montani. Mi fermo qui perché non voglio aggiungere altro. Voglio solamente riscrivere qui alcune parti del suo libro che consiglio come un libro da tenere sempre a portata di mano, un libro da regalare a chi si occupa del cosiddetto "bene pubblico", a chi non si arrende.
Geografia commossa dell'Italia interna (e già questo titolo è stupendo).
All'inizio del suo libro, Franco si interroga su cosa sta succedendo in questo tempo chiamato, per convenzione, "di crisi":
"Perché la politica è o dovrebbe essere un'elaborazione collettiva. Il pericolo e l'opportunità è che al punto in cui siamo arrivati anche la politica appartiene alle discipline dell'immaginario. Non si sa che strada prendere e allora si fanno arabeschi, congetture. La modernità finisce ogni giorno e ogni giorno prolunga la sua esistenza con una magia collettiva che occulta ciò che è in piena evidenza: non crediamo più alla nostra avventura su questo pianeta. Non abbiamo nessuna religione che ci tiene assieme, nessun progetto da condividere. La paesologia denuncia l'imbroglio della modernità, il suo aver portato l'umano dalla civiltà del segno alla civiltà del pegno."
Cosa suggerisce, allora, Franco?
"In uno scenario del genere una politica possibile è la poesia. La poesia non è il fiore all'occhiello, è l'abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa. La poesia ci può permettere di navigare nel mare delle merci lasciandoci un residuo di anima. La poesia è la realtà più reale, è il nesso più potente tra le parole e le cose. Quando riusciamo a radunare in noi questa forza, possiamo rivolgerci serenamente agli altri, possiamo scrivere, possiamo fare l'oste o il parlamentare, non cambia molto. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra che c'è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che ci fa viaggiare più lietamente verso la morte. Adesso si muore a marcia indietro, si muore dopo mille peripezie per schivare la fine. E invece c'è solo il respiro, forse ce n'è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l'arte della vita. Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità."
E ancora, in un'altra pagina da mandare a memoria, un nuovo invito a occuparsi del nostro luogo e del nostro tempo:
"Non è la crescita la nostra salvezza. La nostra salvezza è la poesia che ancora c'è nelle nostre terre, è questa nuova religione che ci tiene insieme, quest'antica bellezza che vogliamo proteggere e accudire. Non ci aspettiamo niente da nessuno dei parolai che stanno sulla scena. C'è da lavorare con gioia, e poi leggere, ridere, guardare. E per fare questo non abbiamo bisogno solo di leggi e di progetti, di sindaci ed esperti. Le nostre poltrone sono queste montagne, il grano che sta crescendo, le rose che fra poco fioriranno."
Così, Franco ci indica non tanto una via, una ricetta, quanto un "modo", un possibile rimedio. Penso ai miei luoghi, al mio paese, spesso bistrattato dai suoi stessi abitanti, abbandonato quasi a se stesso, svilito, arricchito e impoverito in nemmeno 30 anni. Penso alla poesia dei nostri padri, delle nostre madri, al loro stare nel luogo e nel tempo. Chissà? Sono sconsolato, ma non accetto alcuna facile resa. Da qualche parte, nella geografia commossa, c'è un uomo come Franco che spartisce il suo respiro con il mio e con il respiro di chiunque abbia a cuore la poesia e la vita.
"Il futuro dei luoghi sta nell'intreccio di azioni personali e civili. Per evitare l'infiammazione della residenza e le chiusure localistiche occorre abitarli con intimità e distanza. E questo vale per i cittadini e più ancora per gli amministratori. Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia."
Per quanto mi riguarda, ritrovo nelle parole di Franco un po' delle mie esperienze recenti, un po' della follia che mi ha spinto a riprovarci ancora. Non ho parole chiare come le sue, ma ho sempre amato dondolarmi tra la politica e la poesia, tra lo scrupolo e l'utopia.
Grazie Franco Arminio, per questo libro denso, difficile, duro, poetico, utopico, paesologo, terraiolo, montagnoso, valligiano. Grazie per la tua Bisaccia sempre piena di bellezza e intelligenza.
Vi prego, leggete questo libro, leggetelo da soli, leggetelo agli altri, imparatene dei pezzi a memoria, regalatelo. Insomma, lasciatevi commuovere dalla paesologia.
(il suo blog, http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/) ed è l'inventore della PAESOLOGIA. Una scienza mai come oggi necessaria, soprattutto per chi vive in luoghi appartati, piccoli, periferici, montani. Mi fermo qui perché non voglio aggiungere altro. Voglio solamente riscrivere qui alcune parti del suo libro che consiglio come un libro da tenere sempre a portata di mano, un libro da regalare a chi si occupa del cosiddetto "bene pubblico", a chi non si arrende.
Geografia commossa dell'Italia interna (e già questo titolo è stupendo).
Franco Arminio, Geografia commossa dell'Italia interna, Bruno Mondadori, 2013 |
All'inizio del suo libro, Franco si interroga su cosa sta succedendo in questo tempo chiamato, per convenzione, "di crisi":
"Perché la politica è o dovrebbe essere un'elaborazione collettiva. Il pericolo e l'opportunità è che al punto in cui siamo arrivati anche la politica appartiene alle discipline dell'immaginario. Non si sa che strada prendere e allora si fanno arabeschi, congetture. La modernità finisce ogni giorno e ogni giorno prolunga la sua esistenza con una magia collettiva che occulta ciò che è in piena evidenza: non crediamo più alla nostra avventura su questo pianeta. Non abbiamo nessuna religione che ci tiene assieme, nessun progetto da condividere. La paesologia denuncia l'imbroglio della modernità, il suo aver portato l'umano dalla civiltà del segno alla civiltà del pegno."
Cosa suggerisce, allora, Franco?
"In uno scenario del genere una politica possibile è la poesia. La poesia non è il fiore all'occhiello, è l'abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa. La poesia ci può permettere di navigare nel mare delle merci lasciandoci un residuo di anima. La poesia è la realtà più reale, è il nesso più potente tra le parole e le cose. Quando riusciamo a radunare in noi questa forza, possiamo rivolgerci serenamente agli altri, possiamo scrivere, possiamo fare l'oste o il parlamentare, non cambia molto. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra che c'è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che ci fa viaggiare più lietamente verso la morte. Adesso si muore a marcia indietro, si muore dopo mille peripezie per schivare la fine. E invece c'è solo il respiro, forse ce n'è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l'arte della vita. Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità."
E ancora, in un'altra pagina da mandare a memoria, un nuovo invito a occuparsi del nostro luogo e del nostro tempo:
"Non è la crescita la nostra salvezza. La nostra salvezza è la poesia che ancora c'è nelle nostre terre, è questa nuova religione che ci tiene insieme, quest'antica bellezza che vogliamo proteggere e accudire. Non ci aspettiamo niente da nessuno dei parolai che stanno sulla scena. C'è da lavorare con gioia, e poi leggere, ridere, guardare. E per fare questo non abbiamo bisogno solo di leggi e di progetti, di sindaci ed esperti. Le nostre poltrone sono queste montagne, il grano che sta crescendo, le rose che fra poco fioriranno."
Così, Franco ci indica non tanto una via, una ricetta, quanto un "modo", un possibile rimedio. Penso ai miei luoghi, al mio paese, spesso bistrattato dai suoi stessi abitanti, abbandonato quasi a se stesso, svilito, arricchito e impoverito in nemmeno 30 anni. Penso alla poesia dei nostri padri, delle nostre madri, al loro stare nel luogo e nel tempo. Chissà? Sono sconsolato, ma non accetto alcuna facile resa. Da qualche parte, nella geografia commossa, c'è un uomo come Franco che spartisce il suo respiro con il mio e con il respiro di chiunque abbia a cuore la poesia e la vita.
"Il futuro dei luoghi sta nell'intreccio di azioni personali e civili. Per evitare l'infiammazione della residenza e le chiusure localistiche occorre abitarli con intimità e distanza. E questo vale per i cittadini e più ancora per gli amministratori. Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia."
Per quanto mi riguarda, ritrovo nelle parole di Franco un po' delle mie esperienze recenti, un po' della follia che mi ha spinto a riprovarci ancora. Non ho parole chiare come le sue, ma ho sempre amato dondolarmi tra la politica e la poesia, tra lo scrupolo e l'utopia.
Grazie Franco Arminio, per questo libro denso, difficile, duro, poetico, utopico, paesologo, terraiolo, montagnoso, valligiano. Grazie per la tua Bisaccia sempre piena di bellezza e intelligenza.
Vi prego, leggete questo libro, leggetelo da soli, leggetelo agli altri, imparatene dei pezzi a memoria, regalatelo. Insomma, lasciatevi commuovere dalla paesologia.
giovedì 6 febbraio 2014
La pelle del mondo
Che io abbia una insana passione per i titoli in molti ormai lo sanno (forse anche i pochi che continuano a seguirmi sul blog). Ma che dietro ad ogni titolo che m'invento ci sia un pensiero che cova a lungo prima di rivelarsi in una sintesi a volte ermetica, è una delle cose che mi stupiscono di più. Lo stesso accade per la mia scrittura, per i miei libri che, di solito, nascono velocemente, come se le cose che debbo dire aspettino un bel po' di tempo prima di uscire fuori, in una forma che, quasi sempre, è già abbastanza definitiva. Non correggo quasi mai molto delle mie poesie, dei miei testi. Quando qualcuno mi chiede perché scrivo (una delle domande che sempre ti fanno quando scrivi e presenti i tuoi libri), non riesco mai a rispondere in maniera diretta, elencando una serie di situazioni, circostanze, momenti che mi spingono a farlo. Cerco sempre altre vie, o, meglio, mi vengono spontaneamente alla mente altre formule che nulla hanno a che vedere con concetti del tipo ispirazione, sensazione. Le due parole che saltano sempre fuori sono "sguardo" e "ascolto". Ecco, in sintesi, scrivere, per me, soprattutto quando scrivo poesia, significa allenare le capacità dello sguardo e dell'ascolto, per essere attento al mondo, all'altro, al dialogo silenzioso e complice che è necessario quando si desidera (e anche la parola "desiderio" ritorna spesso nei miei versi) costruire un possibile "terzo" mondo che serva a mettere in relazione il mio mondo con il mondo degli altri. E poi, come per fare in modo che questa strada inviti i passi di chi legge, cerco dentro di me una musica. A cosa serve, infatti, piegare le parole a immagini concrete, a visioni che possono (ma non debbono) essere solo mie, se a queste immagini e visioni non si regala un ritmo, un canto? Su questa musica si costruisce il mio discorso, o meglio, si fa palese il mio invito al dialogo. Da questo primo ascolto deriva tutto il resto. E questa musica impone anche una scelta tra quello che rimane e quello che di solito abbandono. Sì, la mia poesia è fatta anche di "no", di rifiuti, di "allontanamenti da". Provo a fare degli esempi sotto forma di domande. Perché servirsi della memoria solo per ribadire quanto già si conosce, quando la forza dei ricordi può addirittura ricreare un "passato" così vivo che pare ancora qui, presente, la cui forza intatta ci spinge a guardare avanti? Perché lasciarsi travolgere dai giochi "da poeta", quando abbiamo davvero infinite possibilità di inventare nuovi giochi, nuove mosse, nuovi canti con la straordinaria "povertà" di una sola lingua? Sono domande che mi faccio spesso, leggendo la poesia italiana contemporanea che, ad essere proprio sincero, e a parte poche eccezioni, non mi stupisce più, non mi canta più, non mi racconta più, non costruisce più.
Ma non sono capace di esercitare l'affascinante e pericoloso mestiere del critico. Preferisco, ancora una volta, spiegarmi con i miei versi. E poco importa se tutto questo potrà apparire presuntuoso. In fondo, questo è il mio blog, no?
Da Sottopelle, 1998
Ecco, rileggere questi testi, anche per me che li ho scritti, permette di guardare dentro quel mondo la cui pelle è il primo foglio, bianco certamente, ma non per questo muto, ricco di pieghe, ruvidità, macchie più o meno nascoste, impronte digitali, sporcizia e candore. Su quel foglio bianco, con continue sorprese anche per me, mi fermo spesso a raccogliere le cose che lo sguardo e l'ascolto mi regalano in inchiostro e voce.
Ma non sono capace di esercitare l'affascinante e pericoloso mestiere del critico. Preferisco, ancora una volta, spiegarmi con i miei versi. E poco importa se tutto questo potrà apparire presuntuoso. In fondo, questo è il mio blog, no?
Poesie
Da Sottopelle, 1998
Desidero gli oggetti
le loro curve
le loro larve
i masticati
disossati corpi
le ombre il peso
l’insensatezza
di ogni loro sottinteso.
*****
Che cosa faccio qui
vestito a festa?
Non suonano campane
non c’è più gente per le strade.
Solo, aspetto l’ora
come si aspetta il vento
che porta sabbia rossa
odori di deserto e pietre.
E’ festa (te lo giuro)
sono tornato qua per questo
dall’intrico dei sentieri
che il tempo e il vento
hanno dissotterrato.
E suoneranno le campane
e il mio vestito sarà bello
la gente arriverà con canti e grida
raccoglierà la sabbia
e conterà le pietre
col naso insù
a respirare odori di pianura.
E io sarò con te
ti parlerò del vento
e non avrai paura.
*****
Sono rimasto fermo
dove si contano le ore
dove la strada si fa stretta
e non si lasciano che impronte:
la polvere talvolta è più pesante della pietra
vola veloce, sporca tutto quanto e poi ricade
a scolorire il mondo, a soffocare il suono
a rovesciare quel che è certo
a rovistare nei più piccoli recessi
di un corpo attento a non cadere.
Oggi cado e cado ancora e scrivo
non so se riuscirò a partire
se mai ti troverò all’arrivo.
da Di quarzo e terra, 2002
Non ho mai scritto la parola bar
nemmeno auto o ciminiera
non uso nomi propri
come un carteggio familiare
non riesco mai a infilare
una parola dall’inglese
il nome di una via.
Credo che non sia questo
a farmi rimanere
solo, senza parole
a metà strada
tra un qualsiasi discorso
e quel che chiamano poesia.
*****
Oggi è arrivato il caldo
lo sento sottopelle
mentre ricopia i segni
della mia spoglia biografia.
Oggi vorrei la pelle di un serpente
per poi fermarmi ad osservare
la vecchia mappa del mio corpo
che si è seccata per lasciare il posto
alla mia nuova geografia.
*****
Dovremo avere fame ancora a lungo
per poi gustare il cibo in fretta
e divorare il tempo necessario
e poi saziarci di ogni cosa.
Dovremo avere sete ancora a lungo
per poi brindare al giorno dopo
e ubriacarci il tempo che ci manca
e poi buttare i verbi all’aria.
Dovremo avere un giorno ancora a turno
per poi dividerci la fretta
e mascherare il ghigno doloroso
e trasformare in versi ogni disfatta.
Da Chiedimi il rosso, 2003
Delle rinascite improvvise
io non mi fido
qualcosa che risorge
quando è già tutto spento.
E’ il primo movimento
quello che non mi piace
la stretta forte della mano
il piede alzato
verso la polvere lontana
le mani in alto
ad afferrare nubi strampalate.
Di quello che rinasce
ricordo solo la sua morte.
*****
E’ questa diagonale all’improvviso
questa ferita verde all’orizzonte
che mi cancella la certezza
di un passo svelto e prepotente.
Come una ruga nuova sul tuo viso
dice e non dice l’esistente
gioca e pronuncia la bellezza
quando combaciano le impronte.
*****
Vieni c’è tanto rosso da imparare
sotto l’azzurro, sotto le verità lampanti
di fuochi lesti a farsi fumo.
Io, per altri fuochi mi preparo
in mezzo al verde, sotto le luci intermittenti
dei tanti che si fan nessuno.
Vieni, oggi non ho che questo rosso
caldo, bagnato e sterminato e mosso
e quando poi l’avrai imparato
ce lo racconteremo
tu, come vuoi
io, come posso.
da Il mare in salita, 2008
E’ ancora la ginestra
a dirci
che la strada
è quella giusta.
*****
E’ una deriva senza fine
e il sole brucia
lo sai che anche questo è mare
acqua più acqua
che mai sfocia.
Non parli e non rispondi
guardi il muro nero
che sale
e può far male.
Al centro del tuo occhio
non c’è una terra da toccare
solo un barlume
voglia di branchie
di sponde vicine
come di fiume.
*****
Parli
come in un prologo
della tua giovinezza
accorta e breve.
Ascoltarti
è un dialogo
ora che il tempo
non perdona
le solite finzioni.
Questo testardo farci isola
mentre sogniamo l’arcipelago.
da Bisestile, 2010
E sia per te un giorno chiaro
un calmo riversarsi della luce
la notte ti sia amica
un lento scoperchiarsi delle stelle.
Che tu possa restare
sotto la grande madre
nel sole dell’estate
nel buio dell’inverno.
Vengano ancora
settembre e poi febbraio
e non ci sia alcun dolore
né alcun inferno.
*****
Ricordati le mani
devi lasciarle aperte al vento
e chiuse al fuoco
dicevi e sorridevi.
Era quel nostro gioco
babbo
un passatempo di bambini
un canto
un conto alla rovescia
un guadagnarsi i giorni
che allora credevamo tanti.
*****
Febbraio suona il miserere
in ore buie e senza fine
mentre le spalle tremano di freddo
e il cane non ha pace
febbraio cambia ad ogni ora
come una terra che non ha confine
nei giorni illuminati a ghiaccio
e ognuno ascolta la sua voce
ma tu che non chiedevi nulla
se non di fare quattro passi ancora
ridevi della merla e della burla
di chiacchiere nel sole del cortile
dov’è la porta- poi chiedevi
che debbo uscire nella neve
qui tutto brilla e io sto fermo
di luce e voce è un bel morire.
Ecco, rileggere questi testi, anche per me che li ho scritti, permette di guardare dentro quel mondo la cui pelle è il primo foglio, bianco certamente, ma non per questo muto, ricco di pieghe, ruvidità, macchie più o meno nascoste, impronte digitali, sporcizia e candore. Su quel foglio bianco, con continue sorprese anche per me, mi fermo spesso a raccogliere le cose che lo sguardo e l'ascolto mi regalano in inchiostro e voce.
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