lunedì 5 marzo 2012

cosa c'è nel piatto?

Stuzzicato da Alcia Baladan, ritorno, "a tutto tondo" (sono o non sono l'omino tondo?), a parlare di un libro che, da molti anni, contribuisce al godimento intenso dello spaesamento (tutto in -ento), a darmi forza nella quotidiana lotta contro chi vuole il reale più reale che c'è e chi sogna il sogno più sogno che c'è, alla mia sconsiderata negazione della matematica come scienza esatta, alla mia follia che ha sempre più bisogno di confini e di fughe.  Si tratta di Flatlandia, del reverendo Edwin A. Abbott, pubblicato anonimo nel 1882. Il sottotitolo del libro è "Racconto fantastico a più dimensioni" e ci verrebbe spontaneo sospettare l'ennesima Utopia narrata e svelata a ignari lettori. La passione di costruire paesi immaginari rientra nella tradizione letteraria inglese (Abbott è contemporaneo di Lewis Carroll, altro creatore di realtà parallele), ma a questa tradizione Abbott aggiunge un carattere, per così dire, "scientifico": una matematica della fantasia (quasi un controcanto alla grammatica della fantasia) che ancora oggi stupisce, incanta, diverte. Non si conosceva ancora l'esistenza di quella quarta dimensione che sarà poi identificata con il tempo, ma il viaggio attraverso Flatlandia, con le gite a Pointlandia e a Spacelandia, compongono un puzzle in continuo movimento i cui pezzi mutano i contorni ogni volta che ci pare di avere trovato l'incastro.Il gioco a cui Abbott ci invita si trasforma così in un esercizio di decostuzione dei luoghi comuni, delle verità inculcate, delle pretese di onniscenza, dei canoni estetici preconfezionati. Abbot si diverte e ci diverte senza ricorrere a toni violenti, duri (non è Swift, insomma), componendo così una delle più sottili ed efficaci satire che mai siano state scritte. Lo fa col tono quasi dimesso del bravo educatore, dell'insegnante consapevole dell'esistenza di verità ancora tutte da scoprire, del padre docilmente intrappolato nei racconti dei propri figli. La Flatlandia di Abbot è un  mondo che non ha bisogno dello specchio per essere compreso,  un luogo che Giorgio Manganelli ha definito "universo di visioni tragiche e gnostiche, di invenzioni tra incubo e satira, tra puzzle e idea platonica, una fittizia mappa cartacea... un libro leggero e inaferrabile, un capolavoro di illusionismo prospettico."
Vi offro, come assaggio, la dedica con cui Abbott apre il libro (nella traduzione di Masolio D'Amico, Adelphi, 1993)?
Agli 
Abitanti dello SPAZIO IN GENERALE
E a H. C. IN PARTICOLARE
E' Dedicata Quest'Opera
Da un Umile Nativo della Flatlandia
Nella Speranza che,
Come egli fu Iniziato ai Misteri
delle TRE Dimensioni
Avendone sino allora conosciute
SOLTANTO DUE
Così anche i Cittadini di quella Regione Celeste
Possano aspirare sempre più in alto
Ai Segreti delle QUATTRO CINQUE o ADDIRITTURA
SEI Dimensioni
In tal modo contribuendo
All'Arricchimento dell'IMMAGINAZIONE
E al possibile Sviluppo
Della MODESTIA, qualità rarissima ed eccellente
Fra le Razze Superiori
Dell'UMANITA' SOLIDA

Ho amato e amo questo libro come geniale e "matematica dimostrazione" della potenza del linguaggio, come dottissima "applicazione" delle leggi spericolate che la parola realizza in ogni luogo e in ogni tempo, come umanissima possibile soluzione al "problema" della divinità del verbo che nomina e nega, crea e distrugge, svela e nasconde, obbliga e libera. 
Tutto qui, allora? Può l'amore per un libro limitarsi a questo? Me lo sono chiesto (e me lo chiedo ogni giorno). Credo che ci sia un momento, un'immagine, che "fa" questo amore. Nella mia visione "rotonda" del mondo, mi sono commosso quando è apparsa nel libro la SFERA. Essendo io parte sferica dell'umanità solida di cui parla Abbott, ho riconosciuto la mia dimensione e ho rotolato e rotolo ancora felice tra le pagine di questo libro. 

p.s.

Parlando di utopie, avevo perfino immaginato, molti anni fa, nella mia Flatlandia chiamata Belvedere, sopra il monte tondeggiante che domina il mio paese, un parco "a tema" (allora si diceva così) dedicato a Flatlandia, pensato e disegnato per adulti e bambini, un luogo in cui il padre di Marcovaldo e i suoi figli potessero camminare e parlare di lune e gnac.




2 commenti:

  1. ohhhhh. Ale ti avviso che si fa fatica a postare, non so il perché, sarà un problema di Blogspot?
    Comunque, è così impossibile fare Flatilandia dalle tue parti? Grazie per questa recensione, viene ancora più voglia di leggerlo!

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    1. ho visto il tuo commento solo ora, appena finito di rispondere alla tua mail. La mia terra ha subito devastanti violenze in questi 20 anni; è ancora bellissima, ma il rischio di perdere la bellezza è davvero alto. Ma io continuo a lottare (sto ideando la seconda edizione di Rosso Belvedere di cui poi ti parlerò, magari a voce, in Fiera. Oggi ho scritto un nuovo piccolo post su Urmuz, altro scrittore "avaro" ma fantastico. Era un iudice rumeno considerato il padre dell'avanguardia europea. Ciao, e grazie per le tue sbirciatine al mio misero blog. ale riccio

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